La Carbonara
Molto probabilmente a quei coloni germanici (i cosiddetti Cimbri) che si insediarono nel ‘300 al Colle e al Vigo dobbiamo anche l’introduzione dell’impianto della “Carbonara” nel nostro territorio, individuata dall’antico toponimo nella parte occidentale del territorio sovizzese, confinante con Sant’Urbano. Del resto è notoria la perizia di questi boscaioli bavaresi, già avvezzi dall’antichità all’uso del legno delle loro sconfinate foreste. La “Carbonara”, utilizzando una ingegnosa tecnica, consentiva di trasformare il legname in carbone. Su uno spiazzo di terra battuta al limitare del bosco si conferivano rami e tronchi di legno di varie misure che venivano disposti a formare una sorta di calotta, con alla base un cerchio di sassi. All’interno di questa calotta, che richiamava la forma di un pagliaio, venivano poste le braci avviando la lenta combustione che, partendo dal vertice e scendendo via via fino alla parte inferiore, durava tre quattro giorni. L’operazione richiedeva diligenza e attenzione, al punto che i “carbonari” non lasciavano mai la postazione, nemmeno per dormire. Si doveva assolutamente impedire lo spegnimento delle braci, ma anche evitare che si sviluppasse la fiamma viva. Anche il vento poteva mettere a rischio la riuscita dell’operazione che, con circa sei quintali di legna, procurava un buon quintale di pregiato carbone, destinato per lo più all’approvvigionamento in città, significativa risorsa economica, per quanto laboriosa e a rischio. La delicata funzione della carbonara era subordinata a propizie condizioni del tempo, preventivamente studiato dagli addetti ai lavori sulla scorta della propria esperienza e tenendo conto ovviamente dell’andamento della luna, con metodologie che si sono tramandate nei secoli sino a pochi decenni or sono. Ma non sempre le previsioni erano azzeccate.